Si fa un gran parlare del deficit di democrazia dovuto alle “liste bloccate”, di quelle liste dove non è possibile esprimere il voto di preferenza al candidato, di quelle liste dove i nove decimi degli eletti conoscono già prima delle elezioni la loro sorte. Si invocano a gran voce quelle preferenze che furono cancellate con un plebiscitario referendum una quindicina di anni addietro; si invocano quelle stesse preferenze che (appena) tre lustri fa furono identificate come la cancrena che avvelenava il sistema politico italiano.
Un deficit di rappresentatività esiste, negarlo sarebbe dannoso prima ancora che inutile ma, come è d’uso nel sistema politico italiano, le soluzioni proposte sono peggiori del male.
La “preferenza” (al pari delle “primarie”) non è la panacea democratica se si pretende di asservirla a bassi interessi di bottega. Le “primarie” hanno vissuto una breve stagione nel campo del centrosinistra, la straordinaria (quanto inaspettata -a Roma -) vittoria di Nichi Vendola (poi confermata nelle elezioni regionali) contro il “candidato romano” è stato uno dei pochi esempi riusciti di “primarie vere”; altre primarie, con milionate di preferenze gazebine, sono state una pagliacciata sapientemente organizzata dal vertice con (anche) la semplice scelta di alcuni candidati … di non candidarsi per non correre il rischio che un “caso puglia” dovesse ripetersi con inimmaginabili conseguenze sui delicatissimi equilibri geopolitici delle segreterie\salotti romane.
Reintrodurre la preferenza unica in un listone da 40 candidati per una circoscrizione oceanica, sarebbe (praticamente) come non esprimere la preferenza, servirebbe solo a pesare il “potere” dei singoli signorotti locali.
Se la vocazione è veramente quella maggioritaria, basta rimpicciolire le circoscrizioni (diciamo da 5-10 eletti, meglio 5), dare la possibilità di esprimere “una” preferenza, imporre una soglia di sbarramento che impedisca la frammentazione ma che nel contempo salvaguardi la rappresentatività di realtà locali … e gli elettori (molto meno parco buoi di quanto si immagini) sapranno fare il resto. Se il candidato calato da Roma verrà (come credo) vissuto come un corpo estraneo, l’elettore preferirà il carneade locale; la prima esperienza sarebbe con ogni probabilità un bagno di sangue di nomi noti ma, diversamente, non ci sarà mai un “ricambio” degno di tale nome, mai un collegamento diretto fra eletto e territorio, mai la sensazione\percezione di avere un “delegato” che ci rappresenta, un eletto che ha un volto ed un luogo dove possiamo rivolgerci per esprimere le nostre necessità, le nostre esigenze.
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